L'INCONTRO DELLE CULTURE NEL MONDO ANTICO
Il filosofo Protagora nel V secolo a.C. individuava nella
varietà di costumi e consuetudini delle società umane un aspetto irriducibile
della realtà storica ed esprimeva il disorientamento che coglie gli individui
quando vengono a contatto con culture diverse dalla propria e con i differenti
valori che queste incarnano.
Fin dall'antichità le culture non si sono limitate a confrontarsi:
Invasioni, guerre, movimenti di colonizzazione hanno, nel
corso dei secoli, mescolato e sovrapposto popoli e civiltà, e quello che oggi
appare come una "cultura" unitaria e coerente è spesso il risultato
di elementi diversi e di percorsi complessi, che si perdono in epoche remote.
La religione degli antichi greci si presenta come una
sintesi di culti e di miti dalle origini varie ne ed è una dimostrazione: agli
dei dell'Olimpo e alle cerimonie in loro onore si affiancavano i rituali
dedicati alle cosiddette divinità "ctonie", cioè terrestri,
probabilmente risalenti a un antichissimo mito indoeuropeo, di cui esistono
attestazioni archeologiche anche al di fuori della Grecia.
Nel mondo antico l'incontro e la fusione tra civiltà diverse
furono favoriti dalle grandi formazioni territoriali dell'epoca:
- l'impero persiano, costituitosi nel VI secolo a.C.,
unificò sotto una medesima organizzazione politica e sociale popolazioni
geograficamente e culturalmente distanti, dalla Tracia alla valle dell'Indo;
- su quegli stessi territori, due secoli più tardi, nacque
l'ambizioso progetto di Alessandro Magno, che deliberatamente perseguì una
politica di sintesi e di scambio tra le varie culture
- le conquiste di Roma crearono le condizioni per l'incontro
e il confronto di genti diverse.
L'atteggiamento dei Romani fu ambivalente: I popoli vinti
furono assoggettati politicamente e sfruttati economicamente, ma spesso
operarono una sorta di "colonizzazione culturale" nei confronti dei
loro conquistatori.
Alle radici della nostra storia la più significativa
esperienza di incontro e di sintesi tra universi culturali diversi è quella
realizzatasi tra il patrimonio di conoscenze, simboli e valori incarnato dal
cristianesimo e l'eredità filosofica del mondo classico, greco in particolare.
I grandi filosofi cristiani, come Agostino di Ippona,
Tommaso d'Aquino, Guglielmo di Ockham, si servirono del pensiero dei due
massimi filosofi greci, Platone e Aristotele, per esprimere in un linguaggio
adeguato alla cultura del tempo le loro riflessioni sul Dio biblico e sul suo
rapporto con il mondo e con l'uomo.
GLI EFFETTI DELLO STATO MODERNO
Alle dinamiche di sovrapposizione e scambio tra culture
differenti, già presenti nel mondo antico e medievale, l'età moderna aggiunse
elementi decisivi, che conferirono alla questione della multiculturalità la
configurazione e il significato che ancora oggi le vengono attribuiti.
Il più importante di questi elementi è la formazione dello
Stato moderno.
Essa ebbe inizio tra il Quattrocento e il Cinquecento e
nacque dall'incontro di due processi complementari:
- l'accentramento del potere nelle mani del sovrano, che
contribuì allo smantellamento dei vecchi domini e privilegi di tipo feudale;
- la determinazione di confini territoriali precisi, in
virtù dei quali vennero definite "sudditi", e successivamente
"cittadini", di un certo Stato tutte le persone che risiedevano in
una porzione di spazio determinata, ovvero quella in cui si esercitava la
sovranità del monarca.
La realizzazione di questi processi comportò fenomeni ben
precisi.
Il processo di unificazione territoriale provocò il
frequente accorpamento in un unico Stato di comunità diverse per lingua,
origine e tradizioni. Alcune di queste comunità sopravvivono ancora oggi nelle
diverse realtà nazionali a titolo di minoranze, talora felicemente integrate
nella realtà geo-politica di appartenenza, altre volte in posizione di rifiuto.
Complementare a questo meccanismo fu, in certi frangenti, la
frammentazione in realtà politiche diverse di comunità in precedenza unite, o
comunque che riconoscevano una medesima appartenenza.
Più complesso è invece il caso di alcuni Stati costituitisi
in epoche più recenti, come quelli sorti dalle macerie delle grandi formazioni
territoriali che fino alla Prima guerra mondiale dominavano la geografia
europea: l'impero austro-ungarico e l'impero ottomano.
Questi nuovi Stati finirono spesso per riproporre al loro
interno una pluralità di lingue, etnie e culture: si pensi alla Cecoslovacchia,
formatasi nel 1918 dall'impero austro-ungarico e poi, nel 1993, a sua volta
divisasi in due Stati distinti (Repubblica Ceca e Slovacchia), rappresentativi
delle due principali etnie presenti nel paese; o al caso ben più drammatico
della Jugoslavia, nata dopo la Prima guerra mondiale dall'unione di territori
prima austriaci e turchi (Croazia, Slovenia, Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina,
Macedonia, Kosovo, Vojvodina) e poi, negli anni Novanta del Novecento, teatro
di sanguinose guerre interne, che ridisegnarono completamente la geografia
politica della zona.
Quelle che noi chiamiamo "culture", e che tendiamo
a raffigurarci come universi storico-simbolici autonomi e stabili, sono in
realtà il prodotto di sintesi e sovrapposizioni tra mondi diversi, il cui
incontro ha generato qualcosa di nuovo, o viceversa l'esito di una
frammentazione di ciò che in epoche precedenti si presentava come una civiltà
compatta e indifferenziata.
Nessuna cultura, cioè, si trasmette da un'epoca all'altra
come un corpus immodificabile di conoscenze, comportamenti e valori, ma
piuttosto si trasforma e si modella in base alle esigenze della storia: essa ricorda
non tanto il testimone che il partecipante a una staffetta riceve da chi l'ha
preceduto, quanto una canzone popolare che, passando di bocca in bocca, si
arricchisce di motivi e contenuti nuovi.
GLI EFFETTI DELLA COLONIZZAZIONE
In seguito alle scoperte geografiche e alle navigazioni transoceaniche che misero in contatto l'Europa con territori fino ad allora sconosciuti, iniziò una vicenda destinata a contribuire in modo significativo al globale processo di scambio e di contaminazione tra le culture: si tratta della fase moderna del fenomeno della colonizzazione, cioè l'occupazione, a scopo di popolamento o di sfruttamento economico, delle "nuove" terre da parte dei popoli "scopritori".
Nel continente americano i primi a comparire furono gli
spagnoli e i portoghesi, che già con il trattato di Tordesillas (1496) si
spartirono il controllo del cosiddetto "Nuovo Mondo".
I loro primi insediamenti, situati nell'America centrale e
meridionale, erano finalizzati allo sfruttamento, più che al popolamento:
attraverso il sistema delle encomiendas, ovvero vasti territori affidati a
governatori che vi esercitavano un potere personale, di tipo feudale, le masse
indigene furono sottomesse e costrette a lavorare per i nuovi dominatori.
Nel corso del Seicento gli olandesi, gli inglesi e i
francesi cominciarono a insediarsi sui territori americani
centro-settentrionali: in questo caso la colonizzazione fu il risultato di
diversi fattori, di natura non solo economica, ma anche, in particolare per gli
inglesi, politica e religiosa. Il Nuovo Mondo, infatti, accolse, tra gli altri,
oppositori della monarchia britannica e minoranze religiose (come i Puritani o
i Quaccheri), e gli insediamenti a cui diede luogo furono colonie di
popolamento, destinate a divenire realtà territoriali e sociali autonome.
La nascita degli Stati Uniti d'America, avvenuta nel 1783,
portò a compimento questo processo e allo stesso tempo avviò altre dinamiche
decisive per la fisionomia sociale e culturale del paese.
- La penetrazione verso ovest e il progressivo spostamento
della frontiera statunitense avvennero a spese delle popolazioni native, fatte
oggetto di massacri e deportazioni di massa.
- Nel corso del XIX secolo e all'incirca fino alla Prima
guerra mondiale, il nuovo Stato conobbe ulteriori ondate migratorie provenienti
dall'Europa, diverse sia per i fattori che le determinarono sia per la
composizione sociale dei gruppi migranti.
Se durante l'Ottocento i flussi dall'Europa all'America furono
per così dire "trasversali" all'interno della popolazione, e spesso
causati da motivazioni di ordine politico e ideologico, 'tra il 1890 e l'inizio
della Grande guerra a spostarsi furono soprattutto contadini provenienti dai
paesi dell'Europa sudorientale spinti dalla povertà: il loro numero divenne via
via più consistente, finché nel 1921 il governo statunitense promulgò
l'Immigration Act, la prima legge destinata a regolamentare l'afflusso di
stranieri.
Un ultimo fattore che incise molto sulla fisionomia sociale
e culturale del Nuovo Mondo — non solo negli Stati Uniti, ma anche nell'America
centrale e meridionale - fu la tratta dei neri, che a partire dal Cinquecento
trasportò dal continente africano milioni di individui, destinati a lavorare
come schiavi nelle piantagioni e nelle miniere.
Nel giro di due secoli gli afroamericani, benché in gran
parte decimati dalle disumane condizioni di lavoro, crebbero in modo
considerevole e, seppur relegati dalla popolazione bianca in uno stato di
marginalità sociale che neppure l'abolizione della schiavitù riuscì del tutto a
debellare, divennero una presenza sempre più significativa all'interno della
cultura d'oltreoceano.
I FLUSSI MIGRATORI DEL NOVECENTO
LA DECOLONIZZAZIONE
Alle dinamiche di incontro e scambio tra culture differenti
sempre presenti nella storia umana, come abbiamo visto - il secolo appena
concluso ha offerto nuove occasioni, a loro volta derivanti da forme di
mobilità sul territorio prima inesistenti.
Nel corso del Novecento l'Europa, da terra di emigrazione,
verso il Nuovo Mondo o verso territori inesplorati, è diventata terra di
immigrazione, meta agognata di masse umane in cerca di una nuova patria da
abitare.
Due eventi storici in particolare stanno alla base di questa
trasformazione:
1.
la decolonizzazione, ovvero si indica il
processo che negli ultimi 60 anni ha investito i paesi afroasiatici che si sono
affrancati dal dominio politico ed economico degli Stati europei che li avevano
occupati militarmente nei decenni precedenti.
2.
la crisi dei regimi totalitari a ispirazione
comunista.
Nella seconda metà dell'Ottocento molti Stati europei, mossi
da fattori di natura economica, in primo luogo dalla volontà di assicurarsi il
controllo delle materie prime necessarie per il proprio sviluppo industriale, e
da motivazioni di ordine politico-ideologico, tra cui l'idea di una superiorità
naturale e storica della cultura occidentale, destinata a dominare e nel
contempo a civilizzare il resto del mondo, si avventurarono alla conquista del
continente africano e rafforzarono i loro possedimenti in quello asiatico, già
da tempo oggetto di iniziative di colonizzazione.
La colonizzazione ebbe però conseguenze dirompenti sui paesi
occupati.
La spartizione dei territori avvenne senza alcuna
considerazione delle tradizioni culturali e linguistiche preesistenti, con
l'effetto di creare conflitti a livello locale o di acuire tensioni già
presenti.
Non meno devastanti furono, per i paesi colonizzati, le
conseguenze sul piano economico, poiché le attività primarie furono piegate
alle esigenze degli Stati colonizzatori, in particolare con la creazione
dell'agricoltura di piantagione, finalizzata principalmente all'esportazione.
Successivamente le manifatture locali, non reggendo la
concorrenza con la più attrezzata industria occidentale, subirono una battuta
d'arresto.
Quando nel primo dopoguerra i paesi afroasiatici
conquistarono gradualmente la loro indipendenza, le popolazioni locali si
trovarono a dover fronteggiare una situazione di precarietà generalizzata: la
carenza di strutture necessarie per un reale sviluppo economico e la frequente
instabilità politica, spesso culminante in guerre civili, innescarono una serie
di flussi migratori verso l'Europa, dove la ricostruzione post-bellica
richiedeva ingenti quantità di manodopera.
Nei decenni successivi, esaurito lo sforzo della
ricostruzione, molte nazioni europee hanno cercato di porre un freno
all'afflusso di immigrati; tuttavia i flussi migratori non si sono affatto
arrestati, ma hanno semplicemente mutato destinazione: in particolare, a
partire dagli anni Settanta del Novecento, sono diventate terre di immigrazione
l'Italia, la Spagna e il Portogallo, dove lo sviluppo industriale e la carenza
di manodopera locale in determinati settori del sistema produttivo
richiedevano, e per certi versi richiedono ancora, l'afflusso di lavoratori
stranieri.
IL CROLLO DEL COMUNISMO
L'altro evento storico decisivo per spiegare i flussi
migratori degli ultimi 20 anni è il crollo dei regimi totalitari di ispirazione
comunista che nei decenni precedenti governavano i paesi dell'Est europeo:
l'Unione Sovietica e gli Stati cuscinetto formatisi a ridosso del suo
territorio, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Albania, e ad
essa uniti da un'alleanza politico-militare denominata "Patto di
Varsavia" (1955-1991).
Incapaci di realizzare concretamente gli ideali di
uguaglianza e di giustizia sociale a cui si ispiravano, e di promuovere uno
sviluppo economico che li rendesse competitivi nei confronti degli altri paesi
occidentali, questi Stati sono giunti al termine della loro storia politica in
un intervallo di tempo breve, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli
anni Novanta del secolo scorso.
A tale crisi si è accompagnato, in molti casi, un
"ridisegnamento" della geografia politica di quei luoghi, dovuto
all'emergere di istanze nazionaliste e locali che spesso i regimi precedenti
avevano soffocato.
I nuovi Stati nati dalle macerie dei vecchi totalitarismi
hanno dovuto affrontare, al loro sorgere, una pluralità di problemi.
Al risveglio dei particolarismi locali, spesso sfociati in
guerre intestine, si sono aggiunte la precarietà delle neonate istituzioni
democratiche e la grave crisi economica conseguente alla transizione da
un'economia fortemente centralista e centralizzata a un'economia di mercato, la
cui adozione era inevitabile, ma il cui impatto sulla popolazione è stato
devastante: disoccupazione, mercato nero e inflazione hanno ridotto molte
persone in povertà.
Nel nuovo problematico contesto storico-sociale,
l'emigrazione è apparsa a molti l'unica risorsa per cercare una vita migliore.
Pur di abbandonare una situazione ritenuta intollerabile,
molti individui si sono ritrovati costretti a imboccare la strada dell'uscita
clandestina dal proprio paese, finendo spesso per trasformarsi in vittime delle
spregiudicate manovre di quanti hanno deciso di approfittare della situazione
per arricchirsi sulla pelle dei loro stessi connazionali.
LA GLOBALIZZAZIONE: PERSONE E IDEE IN MOVIMENTO
I flussi migratori non costituiscono però i soli spostamenti
che favoriscono l'incontro e lo scambio tra persone e civiltà diverse.
Nella società industriale avanzata, la sempre più stretta
interdipendenza economica, politica e culturale tra le varie parti del mondo
favorisce una mobilità sul territorio sconosciuta alle età precedenti, che
stimola la diffusione e la condivisione di consuetudini e conoscenze.
A fianco delle masse di individui che lasciano il luogo di
origine in cerca di un'esistenza migliore, fuggendo da una situazione di
disagio, esiste quindi anche una grande quantità di persone che si spostano per
ragioni di tipo diverso: lavoro, studio, affari, svago, ..., per soggiorni più
o meno prolungati.
Ma nel mondo globalizzato non sono solo le persone a
spostarsi.
Lo sviluppo dell'industria culturale, e in particolare dei
mass media, utilizzati per gli scopi più disparati, produce un flusso continuo
e consistente di informazioni tra le diverse parti del mondo, che se da un lato
richiede, per il suo svolgimento, un linguaggio comune e una comune base
culturale tra i vari interlocutori, dall'altro lato mette in contatto persone
di varia appartenenza geografica, etnica e sociale, favorendo il diffondersi,
all'interno dei diversi paesi, di pratiche e conoscenze nati in contesti
culturali molto differenti.
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