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DALL'UGUAGLIANZA ALLA DIFFERENZA

 
IL VALORE DELL'UGUAGLIANZA

Per molto tempo l'uguaglianza ha costituito la bandiera sotto la quale gli uomini hanno combattuto alla ricerca di un mondo diverso e migliore.

Scaturito tra il XVII e il XVIII secolo dalle riflessioni degli illuministi, il valore dell'uguaglianza è invocato con particolare passione nelle battaglie della borghesia rivoluzionaria, in opposizione ai privilegi di classe della nobiltà e del clero.

Poi è confluito nelle costituzioni dei moderni Stati liberali, come garanzia di giustizia e di democrazia.

Per esempio, l'articolo 3 della nostra Costituzione recita: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» 

In questo senso l'idea di uguaglianza è stata impugnata per combattere le discriminazioni attuate a danno dei soggetti sociali più deboli, come per esempio, la lotta per il diritto al voto da parte delle donne.

L'uguaglianza può essere intesa in due modi principali:

- come una prerogativa originaria da tutelare, cioè come uguaglianza formale;

- come una condizione da promuovere concretamente, cioè come uguaglianza sostanziale.

ln entrambi i casi si fa riferimento a una stessa accezione del termine: quella di una "identica posizione" degli individui nei confronti della legge, capace di assicurare loro le fondamentali libertà civili e politiche, e sostanzialmente "indifferente" rispetto alle diversità fisiche, sociali, psicologiche e culturali che distinguono una persona dall'altra.

Il naturale termine di riferimento dell'uguaglianza è lo Stato, in quanto detentore della sovranità e dispensatore di "uguali" diritti e doveri a tutti i cittadini, che risultano così titolari delle stesse prerogative nei suoi confronti.

 

IL VALORE DELLA DIVERSITA'

Storicamente, il primo ambito in cui emerse la "diversità", intesa come le diverse esigenze e richieste dei cittadini allo stato, è quello della professione di fede, che fin dal Seicento fu causa di sanguinosi conflitti.

Nell'Europa dilaniata dalle guerre di religione, vincolata dal principio del cuius regio eius religio, in virtù del quale i sudditi erano tenuti a professare lo stesso credo dei loro sovrani, da più parti si avvertì l'esigenza di tutelare la varietà delle confessioni e delle forme di culto.

Lo strumento teorico a cui venne affidato il riconoscimento di questa diversità fu la nozione di tolleranza, teorizzata tra il XVII e il XVIII secolo da diversi intellettuali.

Con tolleranza si intende nella cultura sei-settecentesca, l'accettazione delle opinioni filosofiche e religiose liberalmente professate dai cittadini; con il tempo il termine ha assunto il significato generale di rispetto di idee e convinzioni diverse da quelle socialmente dominanti.

John Locke, nel Saggio sulla tolleranza (1667) e nella Lettera sulla tolleranza (1689), affermò che, nel disciplinare la vita sociale, la legge dello Stato deve arrestarsi di fronte a quelle sfere di pensiero e di attività in cui ogni persona può far valere le proprie preferenze e convinzioni: tali sono le decisioni della vita privata, ma anche le opinioni filosofiche e le pratiche religiose. Ogni persona deve poter scegliere liberamente in quale Dio credere e in quali forme esercitare il proprio culto, purché naturalmente le sue credenze e le sue pratiche non si traducano in comportamenti pericolosi per la comunità.

Il tema venne ripreso nel Trattato sulla tolleranza (1763) del filosofo Voltaire, il quale, traendo spunto da un caso giudiziario innescato da atteggiamenti di fanatismo religioso, esorcizzò l'intolleranza come uno dei peggiori mali sociali e auspicò un mondo in cui il reciproco rispetto delle differenti convinzioni e dei differenti usi portasse i diversi gruppi umani a convivere in spirito di fraternità.

L'appello alla tolleranza religiosa trova un'agevole collocazione all'interno del principio di uguaglianza: esso esprime l'uguale posizione, nei confronti della legge, di ogni forma di culto e degli individui che lo praticano.

Nel momento in cui stigmatizzava la pretesa di ogni credo di porsi come unico e indiscusso depositario della verità, esso suggeriva non solo l'esistenza di molte forme, tra loro diverse e irriducibili l'una all'altra, in cui un individuo poteva vivere autenticamente la propria esperienza religiosa, ma anche che tale diversità, anziché essere un fattore negativo o perturbante, poteva trasformarsi in strumento di confronto e di crescita.

IL NOVECENTO: RELATIVISMO E MOVIMENTI SOCIALI

Nel corso del XX secolo, nuove acquisizioni hanno conferito all'idea di "diversità" una forza sempre maggiore:

- la consapevolezza, maturata in seno alla riflessione filosofica e scientifica, dell'impossibilità di assurgere a una prospettiva unificante della realtà, cioè il "relativismo", la quale ha suggerito che la pluralità delle interpretazioni e dei linguaggi a cui la filosofia e la scienza si affidano è una caratteristica ineludibile di ogni rapporto dell'uomo con il mondo;

- lo sviluppo delle scienze sociali, in primo luogo della sociologia e dell'antropologia, ha reso coscienti di come la stessa realtà quotidiana sia il prodotto di costruzioni e pratiche simboliche che variano sensibilmente a seconda del contesto socioculturale in cui si vive.

A connotare positivamente l'idea di "diversità" ha contribuito, nell'arco del Novecento, la riflessione condotta dai più importanti movimenti sociali, che, lottando per ottenere visibilità, spesso hanno avvertito la necessità di ribadire la propria distanza dalle norme e dai modelli socialmente vigenti.

Ad esempio, il movimento femminista: nato con l'intento di emancipare le donne da uno stato di subordinazione giuridica e sociale, e quindi di ottenere una semplice "uguaglianza" di diritti, in un secondo momento esso è giunto a sottolineare positivamente e con forza la specificità della realtà femminile e ad additare nell'universo simbolico che caratterizza le donne un'alternativa all'ideologia patriarcale del mondo occidentale.

 

"NERO È BELLO: IL CASO DEGLI AFROAMERICANI"



Un esempio significativo del legame tra la lettura in chiave positiva della "differenza" e la moderna percezione della multiculturalità ci è dato dall'evoluzione del movimento dei neri americani, nella sua lotta contro la discriminazione sociale delle persone di colore.

In un primo momento, l'obiettivo di questo movimento era la conquista dei diritti civili, ossia la rimozione dei vincoli che ponevano i neri, rispetto ai bianchi, in una diversa, e sfavorevole, posizione di fronte alla legge.

Il suo orizzonte teorico era perciò l'ideale dell'uguaglianza, come emerge dal suggestivo discorso "I have a dream", tenuto il 28 agosto 1963 da Martin Luther King, in cui il leader afroamericano auspicava un mondo nel quale la società statunitense, finalmente fedele ai suoi ideali di libertà e democrazia, riconoscesse come un dato ovvio la naturale uguaglianza di tutti gli uomini.

Parallelamente, però, nel movimento dei neri americani maturò una nuova consapevolezza, ossia la necessità di combattere la discriminazione e il pregiudizio con strumenti ideologici alternativi a quelli socialmente dominanti, che altro non erano che l'espressione del potere dei bianchi, e di recuperare una propria identità etnica e culturale, sul piano linguistico come su quello delle tradizioni, delle usanze, delle pratiche sociali.

Malcolm X racconta dei disperati sforzi da lui compiuti da ragazzino per rendere i propri capelli simili a quelli dei coetanei bianchi; ormai adulto, egli respinge con sdegno l'insensata pretesa di "assimilarsi" ai bianchi a tal punto da rifiutare perfino il proprio aspetto fisico.

Le ansie del giovane Malcolm X riflettevano probabilmente un atteggiamento che rimase a lungo diffuso in buona parte della popolazione afroamericana, come attestano anche alcuni studi compiuti in merito da studiosi dell'area psico-sociale, tra i quali una nota ricerca condotta negli anni Quaranta del Novecento dallo studioso statunitense Kenneth Clark e da sua moglie Mamie Phipps Clark su un gruppo di bambini di colore. Ai bimbi venivano presentati, per un'attività di gioco, diversi tipi di bambole, alcune bianche, altre nere. Pur riconoscendo la propria somiglianza con queste ultime, la maggior parte dei bambini preferiva giocare con le bambole bianche, ritenendole "più belle" delle altre.

Prendere congedo da questi atteggiamenti e affermare con orgoglio la propria specificità fu parte integrante della richiesta di riconoscimento sociale avanzata dai neri americani: Black is beautiful, slogan coniato originariamente dall'abolizionista John Swett Rock, divenne così la denominazione programmatica del loro movimento.

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