DALLA MULTICULTURALITA' AL MULTICULTURALISMO
Le esigenze possono essere molteplici, e, di conseguenza,
anche i provvedimenti che intendono rispondervi.
Un gruppo socialmente minoritario:
- può desiderare assetti giuridici più rispettosi delle
proprie specificità culturali,
- può invocare la rimozione degli ostacoli che gli
impediscono l'effettivo esercizio delle libertà civili,
- può sollecitare interventi concreti per superare una
situazione di emarginazione sociale / per promuovere un'integrazione altrimenti
difficoltosa.
A livello politico-legislativo, il primo autentico documento
multiculturalista della storia del Novecento è il Multiculturalism Act,
promulgato in Canada nel 1971.
Il Multiculturalism Act ha accordato alle diverse province
dello Stato canadese la possibilità di legiferare autonomamente su determinati
ambiti, proprio per tutelare le comunità minoritarie all'interno della nazione.
I progetti multiculturalisti come quello canadese
contribuiscono in modo efficace alla salvaguardia delle minoranze linguistiche
e culturali presenti all'interno degli Stati nazionali. Si tratta di una sorta
di delega, da parte dello Stato stesso, di una porzione della propria sovranità
a quelle realtà locali in cui è più massiccia la presenza dei gruppi
minoritari.
In quanto espressione del rispetto per la pluralità delle culture
e per l'esigenza di riconoscimento sociale che esse avanzano, il
multiculturalismo sembra trovare una sua "naturale" collocazione nel
mondo globalizzato, nel quale, i movimenti migratori e le altre forme di
mobilità sul territorio, creano assetti sociali nuovi e sempre più
differenziati al loro interno.
Tuttavia la sua definizione e la sua effettiva realizzazione
risulta complessa, perché, se il riconoscimento di una minoranza linguistica o
culturale all'interno dello Stato-nazione comporta una sorta di "manovra
di assestamento" che ristruttura gli equilibri sociali e politici del
paese, a maggior ragione il confronto con una "diversità" proveniente
dall'esterno implica a livello giuridico, sociale e psicologico l'esigenza di
definire la fisionomia del "diverso" e la sua collocazione all'interno
della comunità.
Occorre rispondere alla domanda: chi sono gli immigrati?
Gli Stati occidentali hanno dato 3 possibili risposte,
corrispondenti a politiche attuate a partire dal dopoguerra nei confronti dei
cittadini stranieri residenti nel loro paese.
L'OSPITALITA' AGLI IMMIGRATI: I 3 MODELLI
Germania, Francia e Gran Bretagna sono i 3 paesi europei che
si possono assumere come rappresentativi di altrettanti "ideal-tipi"
di risposte all'esigenza di definire l'identità e la collocazione delle persone
immigrate; come tali, essi rappresentano modelli ideali, che possono conoscere,
nella loro concreta realizzazione, oscillazioni e reciproche contaminazioni.
1. IL MODELLO TEDESCO
Il modello tedesco, definito istituzionalizzazione della
precarietà, assume come presupposto che l'immigrato sia una "persona di
passaggio", ossia un individuo che per motivi contingenti è
temporaneamente presente sul territorio nazionale di un paese diverso dal
proprio.
Il compito dello Stato ospitante è quello di integrare
l'immigrato nel mondo del lavoro, ma insieme di favorire la sopravvivenza dei
suoi legami con il paese e con la cultura da cui proviene, nella speranza che
possa ritornarvi quanto prima.
Questo modello corrisponde effettivamente a quelle
situazioni in cui l'individuo immigrato è un lavoratore di passaggio,
intenzionato, quando le condizioni economiche glielo permetteranno, a ritornare
in patria, dove spesso ha lasciato la famiglia e una solida rete di affetti e
interessi.
Esso mostra la sua inadeguatezza in rapporto ai nostri
tempi, in cui le comunità immigrate sono divenute elementi stabili nel tessuto
sociale dei paesi occidentali.
2. IL MODELLO FRANCESE
Il modello francese, definito assimilazionista, parte invece
dall'idea che, una volta trasferitosi in un nuovo Stato, il soggetto immigrato
diventi a pieno titolo un membro della nuova comunità; ciò significa che egli
dovrà fare propria la cultura del paese che lo ospita e che, solo nell'ambito
domestico, potrà conservare abitudini e usanze della società dalla quale
proviene.
3. IL MODELLO INGLESE
Il modello inglese, solitamente definito pluralista, è forse
quello che lascia più spazio per un progetto autenticamente multiculturalista.
Esso assume come punto di partenza la concezione liberale dello Stato, secondo
la quale compito del potere politico è assicurare a ogni individuo il libero
esercizio dei propri diritti, imponendo come unico vincolo il rispetto del
diritto altrui.
In questa prospettiva, è consentito alle comunità immigrate
di manifestare pubblicamente la propria specificità culturale, purché ciò
avvenga nel rispetto delle regole e della libertà delle altre persone e delle
altre comunità'.
IL MULTICULTURALISMO È POSSIBILE?
Il multiculturalismo è la ricetta adeguata alle odierne
società multiculturali?
Si può affermare che l'attuazione di una sorta di par
condicio che metta le diverse comunità nella condizione di esprimere
liberamente la propria specificità sia la strategia preferibile per migliorare
la convivenza di gruppi differenti sullo stesso territorio?
Molte persone guardano con simpatia a questa soluzione,
perché colgono in essa una forma di rispetto nei confronti della diversità e la
rinuncia alla deprecabile pretesa, purtroppo spesso vincente nel passato
dell'Occidente, di giudicare gli altri basandosi su parametri
"eurocentrici" e assolutamente inadeguati.
PUBBLICO E PRIVATO: UNA DISTINZIONE DIFFICILE
Quel che spesso ci sfugge, però, è che alcuni aspetti di ciò
che possiamo chiamare "ambito privato" hanno in realtà una rilevanza
pubblica e sono disciplinati dalla legge: l'educazione dei figli, pur essendo
in gran parte lasciata alla libera scelta dei genitori, sottostà a precisi
dettami costituzionali, si pensi all'articolo 30 della nostra Costituzione, che
recita «E dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli,
anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la
legge provvede a che siano assolti i loro compiti», o a precise disposizioni
giuridiche.
DIRITTI: DELL'INDIVIDUO O DELLA COMUNITÀ?
In secondo luogo, è vero che la tradizione liberale dei
paesi occidentali ha sempre additato nella libertà di espressione un valore
irrinunciabile, di fronte al quale il potere disciplinante dello Stato deve
ridursi all'essenziale.
Ma quella stessa tradizione vede nell'individuo, e non nel
gruppo, qualunque esso sia, il soggetto primo di questa libertà e, in generale,
della sfera dei diritti.
Nessuna comunità etnica, religiosa o culturale può pertanto
avanzare le proprie pretese, se esse violano espressamente quei fondamentali
diritti dell'individuo che la Dichiarazione Universale del 1948 riconosce come
"umani".
Si tratta di una questione complessa, i cui tratti
problematici si possono presentare in più situazioni e in cui il conflitto
sembra contrapporre non tanto l'Occidente ad altre culture, ma differenti
valori e suggestioni (libertà vs diritto, individuo vs comunità) maturati
proprio in seno alla tradizione occidentale.
IL MULTICULTURALISMO È AUSPICABILE?
In altri termini, dire che l'immigrato è
"diverso", anche quando gli si riconosce il diritto di manifestare la
sua diversità, può diventare un modo velato di dire "non voglio avere a
che fare con lui".
A tale proposito, Pierre-André Taguieff parla di razzismo
differenzialista, per designare un atteggiamento diffuso nelle moderne società
occidentali, consistente nella tendenza ad accentuare le differenze culturali
tra le diverse comunità in modo da dichiarare impossibile ogni forma di
dialogo.
Alla base della nozione di "differenza culturale"
sta spesso una visione che potremmo definire "essenzialistica" della
cultura stessa.
Ci si raffigura cioè le singole culture come entità
ontologicamente date e immutabili, che attraversano la storia umana senza
modificarsi o mescolarsi tra loro e che si impongono, per cosi dire, agli
individui al di là della loro libera scelta e della loro capacità di
interpretarle.
Così come il vecchio razzismo usava il concetto di
"razza" per dividere irrimediabilmente gli esseri umani e
discriminarne una parte, allo stesso modo il nuovo razzismo pensa che la
"cultura" plasmi l'essere umano con la stessa ineluttabilità di un
codice genetico.
Eppure, oggi sappiamo bene che l'appartenenza a una
determinata cultura è sempre più il frutto di un'adesione volontaria, di un
percorso che l'individuo compie con tutto il bagaglio delle sue esperienze,
conoscenze e aspirazioni, apportandovi elementi personali di scelta e di
giudizio; per usare una distinzione cara ai sociologi, essa è uno status
"acquisito" e non "ascritto".
L'essenzialismo culturale può avere risvolti pericolosi sul
piano sociale.
L'identificazione della cultura con una sorta di
"essenza" che definisce l'identità degli individui allo stesso modo
di un DNA porta inevitabilmente alla convinzione che essa debba venire
accuratamente difesa e preservata da tutto ciò che può in qualche modo
"contaminarla": da questo derivano la paura della differenza e la
messa in atto di tutte le strategie possibili per esorcizzarla.
L'altro, lo straniero, viene percepito non semplicemente
come portatore di una diversa prospettiva con cui confrontarsi, ma come colui
che può sottrarre una parte importante di ciò che si è; pertanto egli diviene
immediatamente "il nemico", "l'avversario", un soggetto da
neutralizzare.
L'essenzialismo culturale porta a identificare troppo
sommariamente le persone con il gruppo sociale a cui appartengono.
C'è poi un'ultima, pericolosa conseguenza dell'atteggiamento
essenzialista.
Esso può portarci a difendere incondizionatamente
comportamenti e atteggiamenti esibiti da individui e gruppi in nome della
cultura a cui appartengono, senza chiederci se essi rappresentino davvero una
volontà di libera espressione culturale.
OLTRE IL MULTICULTURALISMO: LA PROSPETTIVA INTERCULTURALE
Cogliere gli aspetti problematici insiti nel progetto
multiculturalista non deve tradursi in una chiusura di fronte alle richieste
provenienti dalle diverse realtà culturali presenti nella nostra società, né
nel disconoscimento del valore di risorsa che la differenza riveste all'interno
dei rapporti umani.
L'atteggiamento più corretto nei confronti della diversità è
probabilmente quello di assumerla non come un punto di arrivo definito una
volta per tutte e generatore di separazione, ma come un punto di partenza per
impostare il confronto e la crescita comune.
Per designare questo atteggiamento, contrario sia alla
frettolosa assimilazione della diversità, sia alla rigida stigmatizzazione
delle differenze, si usa il termine interculturalismo, o espressioni a esso
equivalenti come "comunicazione interculturale" o "società poli
culturale".
un atteggiamento che possa essere definito
"interculturalista" deve muovere da due presupposti complementari:
- da un lato, dalla convinzione che, al di là delle
diversità etniche, religiose e culturali, gli individui e i gruppi possano
trovare un terreno comune di dialogo, sul quale affrontare i principali temi e
problemi della convivenza civile;
- dall'altro, dalla consapevolezza che i valori, i comportamenti
e i modelli di vita e di pensiero possano essere considerati da vari punti di
vista, e che le diverse prospettive, anziché combattersi o ignorarsi
reciprocamente, debbano confrontarsi affinché ogni persona sia libera di
snodare tra di esse i percorsi e le scelte della propria vita.
L'INTERCULTURALISMO IN PROSPETTIVA GLOBALE
Sarebbe riduttivo pensare che la finalità
dell'interculturalismo sia semplicemente la gestione delle relazioni tra
cittadini e immigrati allo scopo di prevenire i conflitti e migliorarne la
convivenza.
Questo aspetto è
indubbiamente centrale e qualificante, ma non esaurisce l'orizzonte della
cosiddetta "intercultura", il cui significato più profondo è la
costruzione di relazioni umane ricche e significative, fondate sull'apertura
all'altro e sul dialogo.
Non c'è bisogno di aspettare l'arrivo degli immigrati per
assistere a episodi di emarginazione e di discriminazione, perché ovunque
possono essere eretti steccati: tra ragazzi di quartieri diversi, tra ricchi e
poveri, tra maschi e femmine...
Ogni volta che ci chiudiamo nel recinto mentale del
"noi", inteso come noi buoni, giusti, aperti, civili, progrediti...,
innalziamo una barriera oltre la quale ci sono "gli altri", cioè i
meno buoni, meno giusti, meno aperti ecc.
secondo i principi dell'interculturalismo l'altro non si
oppone all'io, ma in qualche modo vi è contenuto, perché ciascuno di noi ha
dentro di sé la pluralità.
Il nostro io, la nostra identità, è il risultato mai
definitivo di esperienze, incontri, riflessioni, studi, eredità culturale
lasciataci dalle generazioni precedenti e individualmente rielaborata.
La prospettiva interculturale aiuta a rompere i gusci nei
quali spesso inconsapevolmente ci si chiude per comodità o per pigrizia, come
il guscio dell'individualismo, della famiglia-rifugio, del gruppo di amici nei
quali ci rispecchiamo, e ad aprirci a nuovi orizzonti cognitivi, umani, ideali.
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