STATO MODERNO E SOVRANITà
Secondo Max Weber, il cambiamento di significato del termine
"Stato" corrisponde a un cambiamento radicale nella natura del potere
politico verificatosi proprio in età moderna, quando fanno la loro comparsa gli
Stati nazionali o territoriali, caratterizzati da solidi confini territoriali,
da un efficiente apparato amministrativo (burocrazia) e dal monopolio dell'uso
legittimo della forza.
L'attributo fondamentale dello Stato moderno è la sua
sovranità: con questo termine si indica un potere sommo, da cui derivano tutti
i poteri inferiori (ad esempio, i governi locali e le funzioni amministrative),
e che non riconosce al di sopra di sé stesso alcun'altra autorità da cui possa
essere fondato.
I primi teorici della sovranità dello Stato furono il
francese Jean Bodin (1529-1596) e l'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), che
nelle loro opere auspicarono la formazione di uno Stato forte e unitario,
capace di porre fine alle guerre interne e di garantire la pace, condizione
necessaria per lo sviluppo economico e sociale. Attraverso la riflessione di
Bodin e di Hobbes si precisa il concetto di un ordine apolitico", inteso
come progetto razionale di costruzione di rapporti sociali pacifici,
contrapposto a un ordine "naturale", caratterizzato dall'assenza di
regole e quindi da una condizione di insicurezza generale.
STATO ASSOLUTO
La prima forma istituzionale di Stato moderno è stata la monarchia assoluta, il cui esempio più significativo è costituito dal regno di Luigi XIV di Francia (1661-1715), che rafforzò il potere centrale e monopolizzò i servizi. Il tratto essenziale di questa forma di Stato è l'accentramento del potere nella figura del monarca, che esercita in questo modo, direttamente o indirettamente, tutte le funzioni della sovranità.
La legittimazione teorica dell'assolutismo si trova
nell'opera di Thomas Hobbes, il quale ritiene che esso costituisca la soluzione
necessaria per uscire dalla condizione di guerra permanente in cui si
troverebbe per natura il genere umano. Lo Stato assoluto è per Hobbes l'esito
di un patto irrevocabile, con cui gli individui cedono a una sola persona o
istituzione la libertà totale di cui essi godono per natura, ricevendone in
cambio pace e sicurezza. Questo patto decreta dunque una sottomissione totale
degli individui al potere politico, che diventa così la sola fonte legittima
delle norme necessarie alla convivenza sociale. Si tratta di una tesi
"estrema" che oggi può apparirci decisamente reazionaria, ma che
parte in realtà da un presupposto radicalmente nuovo, ossia quello della
laicità del potere politico. Secondo Hobbes, infatti, l'autorità dello Stato,
lungi dal derivare da Dio, o comunque da un principio superiore trascendente,
scaturisce semplicemente da una sorta di "contratto" stipulato dagli
uomini per porre fine a una condizione originaria reputata insostenibile.
MONARCHIA COSTITUZIONALE
In secondo luogo, è da ricordare la monarchia
costituzionale, le cui origini sono inglesi: esse risalgono al regno di
Guglielmo III d'Orange e della moglie Maria, due principi olandesi che
nel 1689 posero fine al dominio personale assolutistico degli Stuart,
restituendo al parlamento britannico le sue prerogative e ripristinando la
libertà di esprimere le proprie idee politiche e di professare la religione
protestante, che gli Stuart avevano cercato di estirpare dal paese. Il 13
febbraio 1689 Guglielmo e Maria giurarono fedeltà a un documento elaborato dai
membri dei due rami del parlamento (la Camera dei Lords e la Camera dei
Comuni), ovvero alla cosiddetta "Dichiarazione dei diritti" (Bill of
Rights), che è considerata il modello di tutte le successive Costituzioni
monarchiche dette "liberali", in quanto rispettose delle fondamentali
libertà personali e politiche (di pensiero, di parola, di religione, di
associazione).
Non a caso, fu proprio nel quadro di riferimento delle
monarchie costituzionali che, tra i secoli XVIII e XIX, si sviluppò il
liberalismo politico, corrente di pensiero e di azione che, assegnando precisi
limiti al potere statale, si impegnava per il progressivo riconoscimento a
tutti i cittadini dei diritti civili (libertà di scegliere dove risiedere e
quale attività intraprendere, di disporre dei propri beni, di esprimere le
proprie opinioni, di professare la propria religione), ovvero quei diritti che
definiscono uno spazio in cui il cittadino può agire liberamente, fuori dal
controllo dello Stato.
La tradizione liberale prestò particolare attenzione anche
all'articolazione interna del potere: se lo Stato assoluto è caratterizzato
dalla concentrazione nelle stesse mani dei 3 poteri fondamentali (legislativo,
cioè il potere di fare leggi; esecutivo, cioè il potere di amministrare lo
Stato; giudiziario, cioè il potere di applicare la giustizia), il liberalismo
ritiene invece necessaria una loro equilibrata distribuzione.
I diversi poteri vanno pertanto affidati a organi
reciprocamente indipendenti (oggi' ad esempio, in Italia il parlamento esercita
il potere legislativo, il governo detiene quello esecutivo e la magistratura
amministra il potere giudiziario), secondo il principio della separazione dei
poteri (spesso indicato anche con l'espressione inglese balance of power)' che
costituisce un requisito classico sia del liberalismo sia delle odierne
democrazie, di cui parleremo tra poco.
Il limite delle monarchie costituzionali fu l'esiguità della
base elettorale: i cittadini che eleggevano i loro rappresentanti al parlamento
erano una minoranza: in pratica solo i possidenti, spesso legati ai candidati
da un rapporto di tipo clientelare.
DEMOCRAZIA LIBERALE
ln terzo luogo, bisogna elencare la democrazia liberale, che è la forma odierna del cosiddetto "Stato rappresentativo", in cui non sono rappresentati i ceti sociali o le corporazioni economiche (come avveniva nel Medioevo e all'epoca dell'assolutismo), ma i singoli individui, considerati uguali di fronte alla legge.
Gli Stati rappresentativi ereditano dalla tradizione
liberale il principio fondamentale della separazione dei poteri e l'attenzione
ai diritti civili dei singoli, visti come limite invalicabile dal potere
statale; inoltre sono "democratici" perché assumono il principio
della sovranità popolare ("democrazia" significa per l'appunto
"governo del popolo") come fonte del potere stesso. Nelle moderne democrazie,
pertanto, i singoli individui, considerati uguali di fronte alla legge, sono
titolari dei medesimi diritti politici. Tra questi, il più importante è senza
dubbio quello che sancisce la libertà di tutti i cittadini di partecipare
attivamente alla vita della nazione, eleggendo i propri governanti e potendo
essere eletti essi stessi mediante libere elezioni a suffragio universale
(ovvero con diritto di voto esteso a tutti i cittadini maggiorenni).
Nelle moderne democrazie rappresentative, il compito di
orientare la scelta politica delle masse spetta generalmente ai partiti,
complesse associazioni che si rivelano necessarie per stabilire un collegamento
tra gli elettori e i candidati.
Come osserva il politologo italiano Giovanni Sartori (nato
nel 1924) nel suo libro La democrazia in trenta lezioni, la nozione di
"democrazia" non è priva di problemi interpretativi, a partire dalla
difficoltà di definire univocamente chi sia il "popolo" che deve
governare.
l'alternativa tra la dimensione pubblica dello Stato e
quella privata della famiglia rimase pressoché invariata fino all'epoca moderna,
quando soprattutto a causa della rivoluzione industriale venne stabilmente
modificata con l'inserimento di una terza possibilità: quella rappresentata
dalla società civile, intermedia tra l'ambito politico e l'ambito familiare,
con cui condivideva rispettivamente la dimensione pubblica e il carattere
tendenzialmente volontario e paritetico delle relazioni tra i membri adulti.
Insieme con il concetto di "società civile", in
epoca moderna nacque anche il problema del rapporto di quest'ultima con lo Stato,
problema per il quale la riflessione politica ha ipotizzato diverse soluzioni:
dall'idea della supremazia della prima sul secondo - sostenuta, ad esempio, dal
pensatore inglese John Locke (1632-1704) e dalla tradizione liberale è la tesi
del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) è il caso del
filosofo tedesco Carl Schmitt (1888-1985).
STATO TOTALITARIO
Il Novecento ha conosciuto un esempio particolarmente
significativo del processo di espansione dello Stato: si tratta dello Stato
totalitario. Fenomeno politico del tutto nuovo, il totalitarismo si afferma
nella prima metà del Novecento, quando, in nome di un'ideologia, alcuni Stati
cominciano a regolare a tal punto la vita dei cittadini da imporre loro non
soltanto le norme della civile convivenza. ma anche i valori e gli stili di
vita. È dunque evidente che lo Stato totalitario è un sistema politico radicalmente
opposto a quello rappresentativo (liberale e democratico), in quanto considera
i singoli individui come meri elementi dell'organismo statale, che non deve
provvedere alla loro tutela, ma anzi può servirsene per i propri fini.
Gli storici individuano le esemplificazioni più compiute del
totalitarismo nel fascismo italiano, nel nazismo tedesco e nello stalinismo
sovietico, tutti affermatisi, non a caso, nel periodo compreso tra le due
guerre mondiali, cioè in un'epoca contraddistinta da una profonda crisi dello
Stato tradizionale e da una conseguente involuzione in senso autoritario. Oltre
a Italia, Germania e Unione Sovietica, questi processi hanno interessato per
certi versi anche altre realtà nazionali, come ad esempio la Spagna, con la
lunga dittatura del generale Francisco Franco (che governò dal 1939 al 1975), o
il Portogallo, con il dittatore Antonio de Oliveira Salazar (che restò al
potere tra il 1932 e il 1968).
Il totalitarismo, tuttavia, presenta alcuni tratti peculiari
che impongono di distinguerlo dalle dittature, presenti in modo ben più
massiccio in ogni epoca storica. La sua caratteristica più importante è il
completo e assoluto assorbimento della società civile da parte dello Stato,
ossia la sistematica abolizione di ogni distinzione tra dimensione pubblica e
dimensione privata. In questa prospettiva, come abbiamo accennato, nei regimi
totalitari ogni ambito della vita dei cittadini deve essere modellato sulla
base dei principi politici vigenti e subordinato agli interessi strategici
dello Stato: dagli aspetti economici e produttivi a quelli dell'educazione e
della formazione, a quelli della vita personale (compresa la sfera più intima
dei comportamenti sessuali). E se le varie dittature della storia possono aver
eguagliato, in alcune fasi, la crudeltà dei regimi totalitari, certo non hanno
mai perseguito un controllo così sistematico della vita individuale.
HANNAH ARENDT
Convinta che i casi di dominio totalitario pienamente
realizzato siano quelli della Germania nazista dopo il 1938 e dell'Unione
Sovietica stalinista dopo il 1930 (mentre il regime fascista italiano
rappresenterebbe una forma di pre-totalitarismo), la Arendt individua i
seguenti tratti distintivi dei regimi totalitari:
- La presenza di un capo che svolge il ruolo di guida carismatica delle masse e che, come tale, è insostituibile;
- la sua dinamica volontà è legge suprema, vale a dire che gli eventuali improvvisi cambiamenti di linea politica da lui imposti non devono stupire;
- la sua parola, d'altronde, è considerata infallibile, anche se non necessariamente veridica: le parole del capo istituiscono una situazione, non la descrivono;
- contrariamente al despota o al dittatore, il capo assume su di sé la responsabilità delle azioni compiute dai subalterni;
- assolutezza della leadership: il capo non può essere un primus inter pares, ovvero un individuo che guida un gruppo di persone al suo stesso livello, ma deve essere un superiore senza alcun vincolo (in latino ab-solutus, "sciolto"), in quanto non può incontrare ostacoli nella realizzazione dei suoi disegni;
- l'eventuale confusione nella gerarchia di potere dei suoi sottoposti contribuisce a garantirgli un dominio incontrastato;
- appoggio delle masse e fanatismo: il popolo nutre una fedeltà incondizionata e illimitata nei confronti del capo, le cui mete sono "idealisticamente" preferite al perseguimento degli interessi personali;
- controllo di ogni aspetto della vita degli individui;
- nuova (distorta) concezione della realtà: il capo non basa le proprie decisioni su un esame realistico dei fatti, in quanto disprezza il calcolo delle conseguenze immediate delle proprie scelte; è incurante degli autentici interessi nazionali, ai quali antepone il perseguimento di fini anche irrealistici, ma comunque funzionali alla trasformazione delle masse in strumenti di attuazione dell'ideologia totalitaria;
- uso sistematico della propaganda;
- ricorso al terrore: tutti devono sentirsi costantemente in pericolo di vita, sia nel caso in cui scelgano di opporsi al regime, sia nel caso in cui appartengano alle categorie che il capo considera "nemiche" (le classi sociali "in via di estinzione" o •decadenti • per lo stalinismo, che indicava con queste espressioni i borghesi e gli intellettuali non allineati al regime; le persone "inadatte alla vita" per il nazismo, che definiva così i soggetti malati, "imperfetti", o semplicemente non appartenenti alla razza ariana, considerata superiore);
- riferimento continuo a un'ideologia per la quale il regime totalitario è mero strumento di attuazione di un processo ineluttabile (di tipo storico, come nel caso dell'ideologia stalinista, tesa all'avvento della dittatura del proletariato; oppure di tipo biologico, come nel caso dell'ideologia nazista, tesa alla selezione razziale).
DEPORTAZIONE E CONCENTRAMENTO
Una tragica costante dei totalitarismi, a cui non si può non
fare cenno, è il ricorso ai "campi di concentramento" . Con
l'espressione "campo di concentramento" si indica una struttura
carceraria perlopiù costruita all'aperto, in luoghi isolati, composta di grandi
baracche (dormitori, refettori, laboratori) e recintata con alti reticolati di
filo spinato, che veniva utilizzata dai regimi totalitari per la detenzione non
solo dei prigionieri di guerra, ma anche di tutti quegli individui che, a vario
titolo, erano considerati pericolosi per la stabilita sociale. Nota anche come
"deportazione", termine che allude a un allontanamento forzato, a una
sorta di esilio, tale pratica era già nota alla Russia zarista, che vi faceva
ricorso per i delinquenti comuni o politici: il totalitarismo la trasformò però
in una pratica di massa, che colpiva in modo arbitrario e spesso casuale
qualunque cittadino, in quanto appartenente a gruppi considerati ostili, o
semplicemente in quanto accusato, talvolta senza alcun fondamento, di essere
"nemico" dello Stato.
Nei campi di concentramento sovietici, più conosciuti come
"gulag" (sigla dell'ufficio politico che gestiva le deportazioni), i
prigionieri erano crudelmente sfruttati per lavori che spesso non rispondevano
neppure a uno scopo concreto; tuttavia questi luoghi non erano organizzati come
"fabbriche di morte", perché da un gulag era possibile uscire vivi,
perfino dopo molti anni di detenzione.
Non altrettanto può dirsi dei campi di lavoro nazisti, più
correttamente indicati come "campi di sterminio", perché i
prigionieri (deportati politici, criminali, omosessuali, testimoni di Geova,
zingari ed ebrei) non solo venivano di fatto ridotti in schiavitù, ma
attendevano senza speranza di essere "soppressi", in base al folle
proposito, formulato in nome di un'aberrante ideologia e organizzato con
precisione scientifica, di eliminare tutti gli individui che non rispondessero
ai criteri della purezza razziale ariana.
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