Nei primi anni Cinquanta del Novecento Howard Becker (nato
nel 1928) un giovane ricercatore di Chicago che ha precocemente
conseguito la laurea presso l'università in quella Città e ha già maturato una
certa esperienza come pianista jazz. Questa duplice -anima' che lo
caratterizza lo porta a posare il suo sguardo di sociologo sul mondo dei
musicisti: da questa esperienza di osservazione nasce il saggio "la
cultura di un gruppo deviante: il musicista da ballo, comparso originariamente
sull'"American Journal of Sociology" nel 1051 e poi confluito, con
altri saggi dell'autore, nel volume Outsiders, pubblicato nel 1963.
la ricerca di Becker si muove nel solco della scuola di
Chicago e della metodologia che la caratterizza: quella della ricerca
etnografica, basata sull'utilizzo dell'osservazione partecipante e finalizzata
alla ricostruzione delle cosiddette subculture, complesso di idee, norme e
Modelli di comportamento che, all'interno caratterizzano gruppi o categorie
particolari, in genere ignorati. Come lo stesso Becker spiega nel suo
saggio, l'esperienza di osservazione si volge tra gli anni 1948 e 1949;
suonando con varie orchestre in diversi tipi di locali, Becker raccoglie il
materiale soprattutto nei momenti di lavoro, ma anche negli uffici dove i musicisti
si recano alla ricerca di ingaggi. Prende appunti su ciò che vede e ascolta, ma
riesce a rimanere in incognito: per la maggior parte delle persone è solo
musicista tra gli altri.
Ciò che interessa Becker è soprattutto l’immagine che i
musicisti hanno della loro professione, del loro ruolo sociale e, di riflesso,
l'idea che si formano del loro pubblico. Secondo lo studioso, lui tende a
pensarsi come un individuo "diverso" dagli altri, in qualche modo
autorizzato, in virtù del suo talento e della sua creatività, a non curarsi
delle convenzioni sociali e nel contempo capace di una totale tolleranza nei
confronti dei diversi stili di vita e d' pensiero, preclusa invece alla maggior
parte delle persone. A questa idea della propria 'superiorità" fa
riscontro un malcelato disprezzo nei confronti degli square, le persone
comuni che costituiscono il pubblico degli stessi musicisti, privi di
sensibilità estetica e prigionieri, in generale, di una mentalità ristretta.
Il conflitto in cui si dibatte il musicista, secondo Becker,
consiste nel fatto che, se da un lato egli si sente superiore agli square e
autorizzato a non curarsi dei loro giudizi, dall'altro lato però è costretto a
dipenderne giacché essi costituiscono i suoi "clienti" e, dunque, la
sua stessa fonte di sopravvivenza. Nei locali, soprattutto in quelli destinati al
ballo, egli è pertanto costretto ad assecondare i gusti di un pubblico
ignorante, a suonare musica commerciale e ad esibirsi in modo contrario ai
propri ideali professionali. Nella sua esperienza di osservazione, Becker
"cattura" frammenti di frasi significative al riguardo: "Sono
pesanti", "Non ne capiscono niente" , "Cosa suoniamo e come
suoniamo non ha alcuna importanza... se possono sentire una melodia su cui
fischiettare, sono felici" ecc. In che modo il musicista reagisce a questa
situazione? Solitamente, accentuando la tendenza all'isolamento sia fisico (ad
esempio, evitando contatti con il pubblico durante e dopo i concerti) sia
sociale (cioè intensificando le condotte che lo differenziano dalla gente
comune). Egli frequenta solo persone del suo ambiente e rifiuta le convenzioni
sociali più tipiche, come il matrimonio, la partecipazione politica e
religiosa... In questo modo, secondo Becker, si crea un circolo vizioso in
quanto le difficoltà di rapporto con gli square vengono amplificate e la
condizione di "deviante" (cioè di persona che si discosta dalle norme
socialmente stabilite) del musicista viene ulteriormente amplificata.
Lo studio sui musicisti da ballo costituisce per Becker
proprio un'occasione per approfondire le proprie riflessioni sulla devianza),
sui meccanismi di "etichettatamento" sociale che la generano e sui
circuiti di amplificazione che la confermano. Non sorprende perciò il fatto che
nell'opera Outsiders ( 1963) il saggio sui musicisti compaia accanto a quelli
su altri gruppi devianti studiati da Becker, ad esempio i fumatori di
marijuana.
BANFIELD: UN OSSERVATORE A MONTEGRANO
Quando pensiamo a una ricerca antropologica, la nostra
immaginazione è solita figurarsi scenari di studio "esotici", abitati
da popoli molto diversi da noi. Ma, come ben sappiamo, per la ricerca
antropologica contemporanea in qualche circostanza gli "altri" siamo
noi, cioè la nostra cultura, i nostri modi di vivere.
A testimonianza di questo contribuisce la lettura dell'antropologo e politologo statunitense Edward Banfield (1916-1999), autore del saggio Le basi morali di una società arretrata, pubblicato nel 1958. L'opera è il resoconto di una ricerca condotta tra il 1954 e il 1955 sulla popolazione di Chiaromonte, un paesino della Basilicata in provincia di Potenza, nel libro ribattezzato, per ragioni di discrezione accademica, "Montegrano".
Quando giunse in Italia per condurre la sua ricerca --
accompagnato dalla moglie, di origini italiane, che lo aiutò a condurre le
interviste — Banfield aveva alle spalle una lunga carriera di studioso e
professore universitario. Era noto negli ambienti accademici per le sue
posizioni conservatrici e molto personali. Verso la fine degli anni Trenta,
infatti, dopo un'iniziale sostegno al presidente Roosevelt, si era pronunciato
contro gli interventi di pianificazione del New Deal, che riteneva
inefficienti, e aveva maturato la convinzione secondo cui, in assenza di una
cultura cooperativa e solidale adatta a recepirli correttamente, gli interventi
dello Stato sono inutili.
La ricerca sugli abitanti di "Montegrano" rappresenta proprio il tentativo di verificare questa convinzione in un contesto specifico, quello italiano, e in un momento storico particolare: quello della politica di aiuto ai paesi dell'Europa occidentale intrapresa dagli Stati uniti negli anni del dopoguerra. Da parte del governo americano, c'era la volontà di proporre piani di sviluppo compatibili con le realtà sociali a cui erano destinati, ma nel contempo di individuare in queste realtà quei fattori che potessero costituire un ostacolo alla crescita economica. Gli interessi scientifici dello studioso si incrociavano quindi con quelli politici ed economici del suo paese.
Benché il sociologo Arnaldo Bagnasco - autore dell'edizione
italiana del libro - reputi inesatto definire Banfield un antropologo",
ritenendo più appropriata la qualifica di political scientist, è però
innegabile che l'indagine dello studioso presenti tutte le caratteristiche
metodologiche della ricerca etnografica: è svolta in una comunità di piccole
dimensioni piuttosto chiusa verso l'esterno, è condotta tramite osservazioni
sul campo e interviste, ha una durata piuttosto lunga (più di un anno).
Dell'indagine etno-antropologica ha pure il limite ovvero la difficoltà di
generalizzarne i risultati.
Banfield cerca quindi di capire quali siano i meccanismi di
attribuzione e redistribuzione del potere e delle risorse in un contesto
caratterizzato da scarsità, ossia povero. Cerca in particolare di comprendere il
ruolo dei valori condivisi in quel contesto, di capire se essi siano un
ostacolo alla modernizzazione, auspicata dal governo statunitense.
La risposta dello studioso è compendiata nel concetto di
familismo amorale, espressione con cui egli designa la chiusura del gruppo
familiare in se stesso, a scapito del senso civico e della solidarietà sociale.
Gli abitanti di 'Montegrano", infatti, raramente agivano per un fine
superiore agli interessi immediati del loro nucleo familiare; la regola
generale che ispirava il loro comportamento individuale era quella di
massimizzare i vantaggi immediati per la propria famiglia, nella convinzione
che anche gli altri avrebbero fatto lo stesso.
Banfield collegò il familismo amorale alla famiglia nucleare
di piccole dimensioni a lui parve come un gruppo grettamente chiuso e
diffidente. Al contrario, secondo studioso la comunità familiare estesa
alimenterebbe comportamenti sociali altruistici, cioè la solidarietà, la
collaborazione, il senso del dovere collettivo, l'organizzazione Curiosamente,
la fortuna della ricerca di Banfield è legata al fraintendimento della sua
ipotesi: nella pubblicistica e nel linguaggio della politica, infatti, si è
finito con il sostenere che il familismo amorale è un portato della famiglia
patriarcale tipica del Sud (ovvero il contrario di ciò che affermava lo
studioso); questo probabilmente è accaduto perché gli stereotipi legati alle
famiglie del Sud ('arretrate", patriarcali, con la figura del
padre-padrone ecc.) hanno avuto il sopravvento sulla reale conoscenza del
dettato socio-antropologico del Vautore. ormai correttamente inteso solo nella
ristretta cerchia¯ degli specialisti.
MILGRAM: L'OBBEDIENZA E AUTORITà
A New Haven (Connecticut), una tranquilla mattina del 1961.Su un giornale locale compare un interessante annuncio: lo psicologo statunitense Stanley Milgram ( 1933-1984), l'epoca professore all'università di Yale. cerca 500 persone di sesso maschile tra i 20 e 50 anni, disposte a offrire, in cambio di 4 dollari più il rimborso spese, un'ora del loro tempo per partecipare a una ricerca scientifica su memoria e apprendimento. Chi fosse interessato trova nella stessa pagina il modulo di partecipazione da compilare e inviare. Comincia cosi uno dei più interessanti e al tempo stesso, inquietanti esperimenti di psicologia sociale. Milgram era all'epoca un giovane professore di 27 anni; a spingerlo a condurre questa ricerca— che non verteva in realtà su memoria e apprendimento, ma sull'influenza sociale esercitata dall'autorità - era una riflessione sull'obbedienza come fattore importante nella genesi del comportamento, e soprattutto sulle forme più che l'obbedienza assume all'interno della vita associata. La Seconda guerra mondiale era finita da non molti anni e aveva visto milioni di persone sterminate da altri individui (soldati, kapò, medici, infermieri) che si erano in seguito giustificati sostenendo di avere obbedito a ordini superiori. Ma è davvero possibile, si chiedeva Milgram, che il principio dell'autorità sia così potente da azzerare il codice morale e la sensibilità del soggetto?
operai, ingegneri); Milgram li divise in 3 gruppi corrispondenti a diverse categorie professionali, avendo cura che in ognuna di esse fossero rappresentate le diverse fasce di età (minori di 30 anni, dai 30 ai 40, dai 40 ai 50). Alla ricerca partecipavano però anche due soggetti complici, cioè addestrati da Milgram a recitare una parte ben precisa: un signore dall'aspetto professionale interpretava il ruolo dello "sperimentatore", addetto a condurre l'esperimento, e un uomo di mezza età venne presentato ai partecipanti ignari come l' "allievo" impegnato in un'attività di apprendimento, di cui ognuno di loro, in qualità di "insegnante", avrebbe dovuto monitorare le prestazioni. Nello svolgimento dell'esperimento l' "insegnante" e l' "allievo" si trovavano in stanze attigue: potevano comunicare a voce, ma non si vedevano fisicamente. Al primo fu spiegato che avrebbe dovuto far imparare a memoria al compagno una lista di termini, e che a ogni errore commesso avrebbe dovuto punirlo somministrandogli scosse elettriche progressivamente più intense (fino a un massimo di 450 volt) tramite un sistema di leve collegato al corpo dell'allievo grazie a degli elettrodi. Naturalmente si trattava di una finzione: le leve non erogavano alcuna scossa, ma il soggetto ignaro non poteva saperlo.
Una volta iniziata la prova, l'allievo-complice cominciava
deliberatamente a dare risposte sbagliate, mettendo così l'insegnante ignaro nella
condizione di dover eseguire mettendo le istruzioni ricevute. A ogni
scossa, l'allievo fingeva di lamentarsi, con gemiti che si facevano sempre più
strazianti, via via che le scosse avrebbero dovuto essere più intense. Di
fronte al disagio manifestato dal soggetto ignaro, interveniva lo
sperimentatore-complice, che ribadiva la necessità di portare a termine la
prova con frasi del tipo: «Prego, vada avanti», oppure: «L'esperimento esige
che lei continui».
Prima di svolgere l'esperimento, Milgram cercò di ottenere una previsione sui
suoi risultati, illustrando la situazione sperimentale a un gruppo di persone
convenute a una conferenza sul tema 'obbedienza e autorità" e chiedendo
loro quale sarebbe stato, a loro giudizio, l'esito della prova. Tutti gli
interpellati pronosticarono che i soggetti sperimentali, salvo pochi casi
patologici, avrebbero rifiutato di obbedire a un ordine così atroce; a sostegno
di tale previsione adducevano la convinzione che, in assenza di una concreta
minaccia fisica, le persone sono in grado di decidere autonomamente i
comportamenti da attuare.
In realtà i risultati dell'esperimento furono ben diversi:
il 62,5% dei soggetti ignari, pur con evidenti segni di turbamento, obbedì alle
richieste dello sperimentatore portando delle oscillazioni in rapporto alle
variazioni introdotte da Milgram all'esperimento-base (in una, ad esempio, il
soggetto complice esprimeva la propria sofferenza con semplici pugni
sulla porta, senza lamenti verbali; in un'altra i soggetti ignari erano tutti
di sesso femminile; in un'altra ancora, la parte dello sperimentatore era
sostenuta da un soggetto dall'aria dolce e mite), ma confermava in ogni caso un
dato inequivocabile: l'acquiescenza del soggetto ignaro allo sperimentatore,
percepito per se stesso come fonte di autorità. Tale autorità scaturiva da
prerogative non personali, ma sociali: il ruolo da lui svolto all'interno della
prova, la competenza che egli possedeva agli occhi del soggetto ignaro, i
valori socialmente positivi (la conoscenza scientifica, la ricerca, il
progresso del sapere) che la sua figura incarnava.
Nel libro da lui pubblicato nel 1974 a resoconto della sua
ricerca, Migram non si limitò a raccontarne lo svolgimento e a riportarne i
risultati, ma condusse anche una riflessione generale sul problema che
l'aveva condotto a intraprendere l'esperimento. la conclusione a
cui giunse è questa: le persone sono sensibili all'influenza dell'autorità
molto più di quanto si possa credere e di quanto esse stesse siano
disposte ad ammettere preliminarmente. E spesso non è necessario che la
figura che rappresenta l'autorità sia dotata di carisma o di prerogative
particolari: perché le sue richieste appaiano legittime è sufficiente che essa
sia percepita in una posizione "di controllo" all'interno di una data
situazione. L'influenza esercitata dall'autorità crea infatti una particolare
condizione psicologica, che Milgram definisce stato eteronomico, in cui il
senso morale di un soggetto subisce una modifica di fondo: egli si sente
responsabile non di ciò che fa, ma verso la persona che glielo prescrive.
Esattamente come accade a un soldato in guerra, il soggetto in stato
eteronomico è preoccupato soltanto di "eseguire le consegne' e di
farlo nel migliore dei modi. Ecco perché è possibile che persone solitamente
tranquille e inoffensive si macchino di azioni atroci, obbedendo a ordini che
in altri contesti giudicherebbero disumani e si rifiuterebbero di eseguire.
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